Mayo 17, 2025

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ABC-ARTE inaugura tra Milano e Genova un nuovo progetto espositivo che celebra l’evoluzione artistica di Arnaldo Pomodoro (Milano, 1926), maestro indiscusso della scultura contemporanea. Una riflessione profonda, con rimandi storici e poetici, sulle radici simboliche dell’opera di Pomodoro, oscillando tra il significato primordiale e la modernità di un segno che esplora il confine tra scultura e architettura. Il progetto, che ha visto la luce grazie al contributo scientifico della Fondazione Arnaldo Pomodoro e alla curatela di Luca Bochicchio, si sviluppa tra le due sedi della galleria: Milano e Genova, offrendo una lettura inedita del percorso dell’artista.

Segno e scultura di Arnaldo Pomodoro dal 1950 al 2014 a Milano

Inaugurata il 27 marzo, la mostra nella sede meneghina di ABC-ARTE in via Santa Croce, propone un dialogo fluido e vibrante tra le opere scultoree di Pomodoro realizzate tra la metà degli anni Cinquanta e i primi anni Duemila. Un percorso che si arricchisce di un complesso di segni, forme e materiali, che sembrano raccontare la costante ricerca di un artista che ha fatto della tensione tra spazio e segno il suo credo estetico.
De-Rive non si presenta come una rassegna cronologica: al contrario, ogni sezione della mostra esplora la continuità e la rottura tra diverse fasi del lavoro di Pomodoro, percorrendo un sentiero che travalica le barriere del tempo. 
In entrambi gli spazi espositivi, lo spettatore si trova immerso in una riflessione visiva che sfida le convenzioni e dove la bidimensionalità, inizialmente timidamente incrinata nei primi rilievi, si espande fino a divenire monumentale, quasi architettonica, nelle opere più recenti.

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Arnaldo Pomodoro, De-rive, installation views Genova ABC-ARTE, Genova, 2025

La dimensione plastica di Pomodoro in mostra da ABC-Arte

Cunei, frecce e scudi si stagliano nello spazio come presenze vibranti, forgiando una geometria che si fa segno e simbolo, traccia di un pensiero che attraversa il tempo. 
Ogni opera è testimone di una ricerca che va ben oltre la semplice forma estetica: Pomodoro sembra esplorare, con ogni scultura, la possibilità di un linguaggio universale, un alfabeto visivo capace di tradurre le sue riflessioni sull’architettura, sulla materia e sul tempo. La monumentalità non è solo una questione di dimensioni, ma di impatto: l’artista costruisce un dialogo tra i suoi lavori con l’ambiente circostante, creando una vera e propria espansione dello spazio. 
Particolare attenzione merita l’uso dell’osso di seppia, emblema della mostra, che, in un gioco di rimandi culturali e simbolici, attraversa tutta la produzione di Pomodoro. L’osso, che si fa contemporaneamente simbolo primordiale e reperto sub-fossile, è metafora di un ritorno alle origini della materia, al gesto incisore che segna la relazione tra uomo e natura.

Arnaldo Pomodoro tra Milano e Genova

Il titolo De-Rive, inoltre, evoca l’immagine delle rive, del mare in movimento, dei segni e delle ombre che si sovrappongono sulla sabbia bagnata, richiamando l’idea di un continuo fluire e trasformarsi dell’opera d’arte. Il progetto curato da Luca Bochicchio non solo si fa portavoce di una riflessione estetica, ma invita anche a una lettura critica più profonda. Sharon Hecker, storica dell’arte e curatrice di fama internazionale, offre una chiave interpretativa che analizza il nomadismo di Pomodoro, la sua costante ricerca di tecniche e materiali differenti, unita a un linguaggio plastico e simbolico che rimane indissolubilmente connesso all’idea di movimento e transizione. Un flusso che, come un fiume, non si arresta mai, ma continua a mutare, ad adattarsi, a reinventarsi. 

Emma De Gaspari
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Cosa ci ha convinto, e cosa no, nei giorni di anteprima della 19. Mostra Internazionale di Architettura, appena inaugurata in Laguna e aperta al pubblico fino a domenica 23 novembre 2025? Il curatore di Intelligens. Natural. Artificial. Collective., l’architetto e ingegnere Carlo Ratti, ha dato vita insieme al team curatoriale e agli oltre 750 partecipanti di quest’anno una narrazione densa di contenuti, input, progetti. Ecco le nostre conclusioni, tra top e flop.

Top – La Biennale che verrà (grazie anche al PNRR)

biennale giardini ph irene fanizza 62 Tutto il meglio (e il peggio!) della Biennale di Architettura 2025 a Venezia
Il cantiere del Padiglione centrale ai Giardini della Biennale Ph Irene Fanizza

Impossibile non farci caso. Tra Giardini e Arsenale è in corso una “rivoluzione architettonica”, destinata a rinnovare profondamente il volto degli spazi e degli edifici a disposizione della Biennale. L’inaugurazione alla presenza del ministro della Cultura Alessandro Giuli, tra le altre autorità, delle nuove biglietterie (ricavate in un’area abbandonata e realizzate con un investimento di 3.3 milioni di euro) è solo la punta dell’iceberg di questo processo. I cantieri in corso sono il riflesso del Progetto di sviluppo delle attività della Biennale di Venezia, ovvero uno degli interventi strategici del Piano Nazionale Complementare (PNC) al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) per i Grandi Attrattori Culturali del Ministero della Cultura, su edifici del Comune di Venezia. Quelli in corso, tra Arsenale, Giardini, Lido e terraferma, sono cantieri del valore complessivo di 169 milioni 556 mila euro; tra le opere più attese segnaliamo il nuovo Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti Contemporanee (all’Arsenale) e la riqualificazione del Padiglione centrale, che viene annunciato come disponibile già per la 61. Esposizione Internazionale d’Arte 2026. Ma non finisce qui, come testimoniano anche i lavori in corso in vari padiglioni nazionali, come quello danese e francese. Non da ultimo: ai Giardini entrate in Community Centre, la struttura disegnata dall’architetta pachistana Yasmeen Lari/Heritage Foundation of Pakistan. Sorge nel sito esatto in cui il Qatar costruirà il suo (già chiacchieratissimo) padiglione permanente, la cui prima immagine (un render dello studio parigino Lina Ghotmeh — Architecture) viene svelata proprio all’interno dell’installazione.

Top – Le mostre extra Biennale

La Mostra For All That Breathes On Earth Jung Youngsun and Collaborators, SMAC. Foto Valentina Silvestrini
La Mostra For All That Breathes On Earth Jung Youngsun and Collaborators, SMAC. Foto Valentina Silvestrini

Nell’edizione 2023, caratterizzata dalla regia curatoriale di Lesley Lokko, avevamo considerato come debole il livello delle mostre collaterali promosse in città contestualmente alla Biennale Architettura. Giudizio di segno opposto quest’anno, con Venezia che accoglie nuove realtà – dalla sede in nel sestiere di Dorsoduro della Nicoletta Fiorucci Foundation al centralissimo SMAC San Marco Art Centre, in piazza San Marco, fra le altre – e mostre che già da sole valgono il viaggio. Proprio SMAC debutta nel panorama culturale lagunare con due distinti progetti, entrambi validi – Migrating Modernism. The architecture of Harry Seidler e For All That Breathes On Earth: Jung Youngsun and Collaborators – che dimostrano tutte le potenzialità, anche a livello espositivo, della nuova sede. Altro evento di strabiliante spessore che troverete a Venezia a latere della Biennale è la mostra dedicata a diagrammi, mappe e infografiche alla Fondazione Prada. Davvero una mostra gioiello frutto evidentemente di una grande ricerca oltre che di una grande visione. Da non mancare.

Top – La rinnovata piazza Santa Maria Formosa e il nuovo corso della Fondazione Querini Stampalia

La nuova Piazza Santa Maria Formosa rivoluzionata dalla Querini Stampalia
La nuova Piazza Santa Maria Formosa rivoluzionata dalla Querini Stampalia

Il graffio del leone è arrivato non solo in Vaticano ma anche in Campo Santa Maria Formosa. Il grande spazio pubblico veneziano si è popolato di ben due leoni e anche di due stupende leonesse, tutti e quattro in metallo e di dimensioni generose. Capaci, manco a dirlo, di catturare l’attenzione di cittadini e turisti che li bersagliano di fotografie. Un nuovo simbolo per la città che proprio un leone ha nel suo stemma. Sono sculture di Davide Rivalta e sono il segno dell’arrivo alla Fondazione Querini Stampalia della nuova direttrice Cristiana Collu decisa a rivoluzionare questa istituzione (che giustappunto su Campo Santa Maria Formosa affaccia) sia dentro che fuori. Ma c’è di più: nell’angolo della piazza più vicino alla fondazione è stato installato anche un grande elemento di seduta bianco progettato da Marti Guixé, perfetto per sedersi all’aperto prima o dopo aver visto le belle mostre in fondazione o aver visitato il rinnovato bookshop, particolarmente ben riuscito e curato dagli editori TLON proprio su disegno di Marti Guixé.

Flop – Call e avvisi pubblici per coinvolgere le masse a progettare le mostre? Bravi ma basta

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Biennale Architettura 2025. Padiglione Italia. Ph Irene Fanizza

Cosa accomuna gli iter curatoriali alla Biennale Architettura 2025 degli architetti Carlo Ratti e Guendalina Salimei? Entrambi – va detto, disponendo di tempi d’azione diversi, ovvero più ridotti nel caso del Padiglione Italia – hanno optato per la democratica via della call, ribattezzandola con differenti denominazioni. Ma anche altri padiglioni si sono mossi così, ad esempio il Portogallo. Senza nascondere una certa fatica nell’elaborazione delle proposte pervenute, nelle interviste che hanno rilasciato ad Artribune entrambi hanno rivendicato l’importanza di questa scelta, adottata per rendere possibile la presenza in Biennale di un’intelligenza più estesa, “collettiva” per usare un vocabolo del titolo della kermesse. In entrambi i casi, il risultato finale finisce però per alimentare qualche perplessità circa i confini e le responsabilità connesse con il ruolo curatoriale. Il numero rilevante dei progetti esposti non facilita la lettura e la piena comprensione delle due mostre. Forse si sarebbe potuto optare per piattaforme digitali (o per il solo catalogo cartaceo), intese come luoghi in cui segnalare progetti meritevoli, ma non al punto da essere selezionati per l’esposizione.

Flop – L’allestimento della Mostra Internazionale alle Corderie dell’Arsenale

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Biennale Architettura 2025. La Mostra Internazionale alle Corderie. Ph Irene Fanizza

Abbiamo già dato conto della densità espositiva che accompagna la Mostra Internazionale, balzata agli occhi fin dal primo giorno di pre-apertura, ovvero a fronte di un selezionato numero di visitatori. Impressione confermata anche nelle successive visite, da qualcuno tuttavia interpretata come la modalità corretta per restituire quella certa caoticità che attraversa il pensiero contemporaneo. A perderci, in termini di visibilità, ci sembra siano soprattutto i progetti più squisitamente architettonici esposti nei pannelli lungo le pareti dell’Arsenale, relegati al ruolo di “fondale” di accompagnamento per la successione di installazioni (in alcuni casi anche meritatamente poste) al centro della scena.

Flop – L’utilizzo dell’intelligenza artificiale

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Biennale Architettura 2025. Le didascalie della Mostra Internazionale alle Corderie. Ph Irene Fanizza

Vi ricordate le didascalie con i volti della Mostra Internazionale di Leslie Lokko? Formavano una carrellata di visi da tutto il mondo, che “dava voce” ai testi esplicativi dei singoli progetti e rendeva manifesta la volontà della curatrice di accogliere contribuiti spesso trascurati. Quest’anno si è ricorsi all’intelligenza artificiale, impiegata in una forma che si sembra riduttiva per le sue potenzialità (che sono smisurate, come del resto anche la Mostra racconta). Fornisce, infatti, un riassunto realizzato a partire dalle parole dei singoli partecipanti, riportate in forma estesa sopra. Data anche la mole dei progetti, forse sarebbe stato sufficiente chiedere direttamente a loro un testo breve anziché ricorrere a un Bignami in AI. E comunque, anche se ti aiuti con l’AI per fare cose, ma perché lo devi dichiarare? Forse dichiari che hai scritto e corretto il testo con Word?

Flop – Il Padiglione Austria

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biennale giardini austria ph irene fanizza

Il Padiglione Austria non solo non dice nulla di nuovo (a Vienna si fa housing sociale alla grande mentre a Roma è un disastro), ma lo dice in maniera per certi versi perfino ingannevole. Sicuramente ideologica. Il padiglione è suddiviso in due: da una parte i virtusismi della capitale austriaca dove tutti coloro che vogliono una casa possono accedere all’enorme patrimonio pubblico. Dall’altra Roma, pressentata come una città di un paese in via di sviluppo (non che in parte non lo sia, per carità) dove per avere un alloggio bisogna conquistarselo con la forza, col sopruso, talvolta con la violenza e occupando edifici di proprietà altrui generando presunti vantaggi per pochissimi e danni per molti. Il padiglione, nella parte ‘italiana’, racconta un ‘modello’ romano altenativo a quello viennese dove le occupazioni illegali e i loro ras vengono indicati come viruosi eroi e lodevoli robin hood. La realtà è sotto gli occhi di tutti: una società basata sull’illegalitàe la prepotenza dove si corre a chi occupa per primo non ha risolto neppure un pizzico dei problemi, che sono sempre li stessi e che anzi si sono acuiti. Anche perché, non di rado, la retorica delle occupazioni illecite ha fornito un pretesto agli amministratori per non fare e non risolvere. Davvero curioso che un paese come l’Austria si sia fatto Cavallo di Troia per passare concetti simili lasciando credere che la disuguaglianza si possa combattere facendo ricorso alle occupazioni abusive.
Valentina Silvestrini e Massimiliano Tonelli

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Una scuola nel centro di Reims, in Francia, 80 anni fa, divenne segretamente il “centro del mondo”. A narrarne le vicende è il regista pluripremiato Wim Wenders, nel corto The Keys to Freedom.

The Keys to Freedom: il corto di Wim Wenders dedicato alla fine della Seconda Guerra Mondiale

Ci sono luoghi in cui è stata scritta la storia, che tuttavia nessuno conosce: tra questi c’è una sala mappe in una scuola di Reims, che fungeva da sala operativa per gli Alleati. Il 7 maggio 1945, la Germania nazista si arrese lì e la guerra mondiale finì. 

Quella scuola ancora esiste: si trova in Rue Franklin Roosvelt e Wenders l’ha ripresa con la sua cinepresa, immortalandosi egli stesso nelle sale in cui il Generale Eisenhower, a capo degli Alleati, fece sottoscrivere la resa ai tedeschi nazisti. 

Il regista narra in prima persona gli eventi che si svolsero in questo luogo segreto, in un gioco temporale che alterna immagini di oggi a quelle di ieri, con fotogrammi che ricreano l’atmosfera di quasi un secolo fa e filmati d’archivio.

Un corto per ricordare e per investire nella libertà

Commissionato dal Ministero degli Affari Esteri tedesco, il corto The Keys to Freedom è stato reso disponibile alla visione sul canale YouTube del dicastero, in più lingue (inglese, tedesco, francese, russo, giapponese, arabo, spagnolo, portoghese).

Lanciato con l’hashtag #WeInvestInFreedom, il film vuole essere anche un monito per ricordare che “la libertà non può essere data per scontata, bisogna fare qualcosa per essa”.

L’impegno di Wim Wenders per la pace

Il film prende il titolo dalle chiavi che il Comandante in capo degli Alleati restituì all’allora Sindaco di Reims una volta siglati gli accordi, dicendo: “Queste sono le chiavi della libertà del mondo!”. 

Wenders ammette nel corto che è stato molto colpito dalla visione di queste chiavi, sebbene ora siano conservate nella teca di un piccolo museo di una scuola. Il regista aggiunge: “Dalla mia infanzia in poi ho vissuto 80 anni in pace. (…) Oggi, per il quarto anni, c’è di nuovo la guerra in Europa. È una guerra contro l’Europa. 80 anni dopo la liberazione del nostro continente, noi europei ci stiamo rendendo conto che la pace non può essere data per scontata”. Con The Keys of Freedom, scritto e diretto da Wenders, il regista ha voluto così dare il suo contributo, far sentire la sua voce di artista, per la pace. 

Roberta Pisa

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Quanti significati si celano dietro un semplice vaso di fiori? Questa la domanda che ha spinto Thomas Braida (Gorizia, 1982) a focalizzare la sua attenzione, da un anno e mezzo a questa parte, sul genere della natura morta e, in particolare sul vaso di fiori. Una ricerca che oggi è confluita nella mostra Tacciono i fiori con cui, dopo tre anni, l’artista torna ad abitare gli spazi romani della Monitor Gallery, proponendo un corpus di opere realizzato per l’occasione dalla rinnovata forza e consapevolezza.  

La natura morta nella poetica di Thomas Braida 

Dipinti su tela, su carta, installazioni e sculture, lavori eterogenei accomunati dalla massima attenzione ai dettagli, si alternano nello spazio della galleria esplorando il genere della natura morta nelle sue diverse sfaccettature e possibilità. Un soggetto che, nella visione dell’artista non è mai mera rappresentazione della realtà ma, caricandosi di elementi immaginari, onirici e surreali, si fa portatore di un significato più profondo. Le composizioni distopiche di Thomas Braida, lungi dall’avere un carattere tranquillizzante, alterando la percezione, oltre a poter essere letti come moderni mementi mori, invitano a riflettere sull’indifferenza, tanto dell’uomo verso il mondo, quanto del mondo verso l’uomo. In un climax che simbolicamente culmina in Survival Painter’s kit, 2025, dipinto in cui il motivo floreale cede il passo a una nuda tavola su cui coesistono una pistola e un pennello. Le opere poi, secondo la poetica dell’artista, sono rese inquietanti dalla sinistra presenza di elementi come: piccoli teschi, gnomi, anomali gatti, tipici della sua grammatica pittorica.  

La pittura liquida di Thomas Braida alla Galleria Monitor  

Il percorso, nutrendosi di riferimenti letterari, traslati implicitamente nelle opere ed evocati solo delicatamente in alcuni titoli, mette in risalto la maturazione avvenuta nella pratica pittorica di Braida. La pittura, rigorosamente a olio, dell’artista ha perso la trascorsa matericità per diventare più fluida, talvolta vaporosa. In queste opere raffinate, “in cui l’artista procede in punta di pennello” per usare le parole della gallerista Paola Capata, c’è una pittura liquida, vivace, in grado di rendere al meglio le potenzialità del medium, adoperato tanto nella sua brillantezza, quanto in una resa più sobria e piana. Notevoli i risultati raggiunti in tal senso, non solo sulle tele ma anche sulle carte; opere di dimensioni contenute, montate con piccole calamite su superfici in resina, realizzate dall’artista, proprio come le cornici; elemento scultoreo che sta acquistando sempre maggiore importanza nella pratica artistica di Braida, tanto da potersi considerare come parte integrante dei dipinti, di cui riprende sottili dettagli, conferendo agli stessi un’impostazione quasi tridimensionale.  

Thomas Braida, Tacciono i Fiori, 2025, installation view at Monitor Rome Ph: Giorgio Benni Courtesy the Artist and Monitor Rome, Lisbon, Pereto (AQ)1 / 7
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L’importanza della tridimensionalità nella ricerca di Thomas Braida in mostra a Roma  

La tridimensionalità diventa protagonista nelle opere in ceramica; vasi, disseminati nello spazio, che si celano dietro inaspettate sembianze, rivelando il gusto dell’artista di stupire giocando con un oggetto che si presta a essere declinato nelle forme più diverse, purché idonee al contenimento di acqua e fiori. A completare il percorso, infine, un altro elemento che testimonia la fascinazione di Braida per il paese del Sol Levante: un Noren con Camelie e Passerotto. Tipico paravento in tessuto che, in Giappone viene usato per separare gli ambienti domestici, realizzato dall’artista a quattro mani con la madre che lo ha cucito. Il Noren, in quanto separé, agisce concretamente l’indifferenza, intesa come “separazione – cesura”. Attitudine che, per la stretta connessione con l’ambiente domestico, evocato tanto dall’oggetto quanto dal coinvolgimento della madre, diventa ancor più eclatante e psicologicamente violento.
Ludovica Palmieri 

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Non c’è spazio per la misericordia dopo la fine del mondo. E tu, chi sceglieresti di essere se tutto andasse in pezzi? InThe Last of Us, videogioco che ha venduto oltre 37 milioni di copie in tutto il mondo, puoi essere Sarah, che si sveglia nel cuore della notte senza sapere che il suo mondo sta per essere divorato da un’infezione fungina che trasforma i contagiati in famelici assassini. Puoi essere Joel, uno spregiudicato contrabbandiere svuotato dal lutto della figlia, che sceglie di salvare un affetto al posto della specie. Puoi essere Ellie, una persona non binaria forte, ostile, nata nel sangue e senza amore, cresciuta tra duri addestramenti e imposizioni, ma immune al fungo Cordyceps che ha decimato il mondo. Puoi anche essere Abby, una superdonna che dopo aver perso tutto si fa strumento di vendetta, più letale degli infetti.

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Non è semplice trasporre un videogame: il successo di  The Last of Us

L’omonima serie HBO co-creata da Neil Druckmann, autore del gioco originale, e Craig Mazin (Chernobyl) ha debuttato nel 2023 con più di 40 milioni di spettatori solo negli Stati Uniti, attirando i consensi sia della severa fanbase sia del nuovo pubblico.“The Last of Us parla di quanto le persone riescano ad espandere la propria umanità”, spiega Druckmann. Il risultato? Un manuale di sopravvivenza e autodistruzione, un’Odissea senza Itaca, senza eroi. Un’istantanea di chi resta, che scruta nell’abisso e rischia di precipitare.

Nonostante il cambio di medium e l’inevitabile distaccamento del punto di vista, da giocatore a spettatore, la storia continua a vibrare, anche senza joystick. Le emozioni restano interattive, non nel gesto, ma nell’intensità con cui il pubblico le riceve e attraversa: si entra nei personaggi, uno dopo l’altro, sentendo il peso delle loro scelte, delle colpe, delle paure. E non sono gli infetti a far paura, ma ciò che resta di umano: il bisogno di amare e di essere amati, di perdonare ed essere perdonati.

The Last of Us 2
The Last of Us 2

I protagonisti di The Last of Us: Joel ed Ellie, Ellie e Dina

In un mondo costantemente polarizzato, Pedro Pascal mette d’accordo tutti. È lui Joel, il personaggio più amato della serie: un antieroe spietato, ma che va in terapia. Ha lo sguardo rassicurante di un padre iperprotettivo, ma in tasca ha una pistola fumante. La sua è una mascolinità ipnotica, morbida, goffa, inconsapevole, lontana dagli standard. Rispetto alla controparte videoludica, Pascal aggiunge nuove sfumature di vulnerabilità, rendendo Joel più umano e tridimensionale, soprattutto nella dinamica con Ellie, interpretata da Bella Ramsey. Due analfabeti emotivi che si scelgono senza parole, che si vogliono bene per sottrazione. A tenere insieme i loro silenzi è una chitarra, una canzone – Future Days dei Pearl Jam – e quella frase che pesa come un presagio: “If I were to lose you, I’d surely lose myself”. E accanto a loro, Dina – interpretata da Isabela Merced – emerge come una presenza altrettanto potente: compagna e ancora emotiva di Ellie, con cui condivide una fragile intimità in un mondo che lascia poco spazio all’amore. La loro relazione non è solo rifugio, ma anche tensione e promessa, destinata a essere messa alla prova dalla spirale di vendetta che incombe.

L’ambientazione della seconda stagione di The Last of Us

John Paino (Big Little Lies, The Morning Show), production designer della serie e candidato a tre Emmy, ha spiegato come ogni ambiente sia stato costruito con l’intento di evocare un realismo emotivo: ogni dettaglio è frutto di ricerca e ricostruzione fedele del videogame. Ogni luogo doveva apparire sia vissuto che abbandonato, con la natura che dominava senza mai prevalere completamente: l’impronta dell’umanità affiora in ogni rovina. L’ambiente, così, diventa un narratore silenzioso, capace di trasmettere emozioni e memoria, senza dialogo. La seconda stagione amplifica questa estetica, esplorando nuove comunità e territori con lo stesso rigore visivo, mantenendo l’equilibrio tra la fedeltà al videogioco e le possibilità offerte dal linguaggio televisivo.
Noemi Palmieri

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