ABC-ARTE inaugura
tra Milano e Genova un nuovo progetto espositivo
che celebra l’evoluzione artistica di Arnaldo
Pomodoro (Milano, 1926), maestro indiscusso della scultura
contemporanea. Una riflessione profonda, con rimandi storici e
poetici, sulle radici simboliche dell’opera di Pomodoro, oscillando
tra il significato primordiale e la modernità di un segno che
esplora il confine tra scultura e architettura. Il progetto, che ha
visto la luce grazie al contributo scientifico della Fondazione
Arnaldo Pomodoro e alla curatela di Luca Bochicchio, si
sviluppa tra le due sedi della galleria: Milano e Genova, offrendo
una lettura inedita del percorso dell’artista.
Segno e scultura di Arnaldo Pomodoro
dal 1950 al 2014 a Milano
Inaugurata il 27 marzo, la mostra nella sede meneghina di
ABC-ARTE in via Santa Croce, propone un dialogo fluido e vibrante
tra le opere scultoree di Pomodoro realizzate tra la metà degli
anni Cinquanta e i primi anni Duemila. Un percorso che si
arricchisce di un complesso di segni, forme e materiali, che
sembrano raccontare la costante ricerca di un artista che ha fatto
della tensione tra spazio e segno il suo credo estetico. De-Rive non si presenta come una rassegna cronologica: al
contrario, ogni sezione della mostra esplora la continuità
e la rottura tra diverse fasi del lavoro di Pomodoro,
percorrendo un sentiero che travalica le barriere del tempo. In
entrambi gli spazi espositivi, lo spettatore si trova immerso in
una riflessione visiva che sfida le convenzioni e dove la
bidimensionalità, inizialmente timidamente incrinata nei primi
rilievi, si espande fino a divenire monumentale, quasi
architettonica, nelle opere più recenti.
La dimensione plastica di Pomodoro in
mostra da ABC-Arte
Cunei, frecce e scudi si stagliano nello spazio
come presenze vibranti, forgiando una geometria che si fa segno e
simbolo, traccia di un pensiero che attraversa il tempo. Ogni
opera è testimone di una ricerca che va ben oltre la semplice forma
estetica: Pomodoro sembra esplorare, con ogni scultura, la
possibilità di un linguaggio universale, un alfabeto visivo capace
di tradurre le sue riflessioni sull’architettura, sulla materia e
sul tempo. La monumentalità non è solo una
questione di dimensioni, ma di impatto: l’artista costruisce un
dialogo tra i suoi lavori con l’ambiente circostante, creando una
vera e propria espansione dello spazio. Particolare attenzione
merita l’uso dell’osso di seppia, emblema della
mostra, che, in un gioco di rimandi culturali e simbolici,
attraversa tutta la produzione di Pomodoro. L’osso, che si fa
contemporaneamente simbolo primordiale e reperto sub-fossile, è
metafora di un ritorno alle origini della materia, al gesto
incisore che segna la relazione tra uomo e natura.
Arnaldo Pomodoro tra Milano e
Genova
Il titolo De-Rive, inoltre, evoca
l’immagine delle rive, del mare in movimento, dei
segni e delle ombre che si sovrappongono sulla sabbia bagnata,
richiamando l’idea di un continuo fluire e trasformarsi dell’opera
d’arte. Il progetto curato da Luca Bochicchio non
solo si fa portavoce di una riflessione estetica, ma invita anche a
una lettura critica più profonda. Sharon Hecker, storica dell’arte
e curatrice di fama internazionale, offre una chiave interpretativa
che analizza il nomadismo di Pomodoro, la sua
costante ricerca di tecniche e materiali differenti, unita a un
linguaggio plastico e simbolico che rimane indissolubilmente
connesso all’idea di movimento e transizione. Un flusso che, come
un fiume, non si arresta mai, ma continua a mutare, ad adattarsi, a
reinventarsi. Emma De Gaspari Libri consigliati:
Cosa ci ha convinto, e cosa no, nei giorni di anteprima della
19. Mostra Internazionale di Architettura,
appena inaugurata in Laguna e aperta al pubblico fino a domenica 23
novembre 2025? Il curatore di Intelligens. Natural. Artificial.
Collective., l’architetto e ingegnere Carlo
Ratti, ha dato vita insieme al team curatoriale e agli
oltre 750 partecipanti di quest’anno una narrazione densa di
contenuti, input, progetti. Ecco le nostre conclusioni, tra top e
flop.
Top – La Biennale che verrà (grazie
anche al PNRR)
Il cantiere del Padiglione
centrale ai Giardini della Biennale Ph Irene Fanizza
Impossibile non farci caso. Tra Giardini e Arsenale è in corso
una “rivoluzione architettonica”, destinata a rinnovare
profondamente il volto degli spazi e degli edifici a disposizione
della Biennale. L’inaugurazione alla presenza del ministro della
Cultura Alessandro Giuli, tra le altre autorità, delle nuove
biglietterie (ricavate in un’area abbandonata e realizzate con un
investimento di 3.3 milioni di euro) è solo la punta dell’iceberg
di questo processo. I cantieri in corso sono il riflesso del
Progetto di sviluppo delle attività della Biennale di Venezia,
ovvero uno degli interventi strategici del Piano Nazionale
Complementare (PNC) al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
(PNRR) per i Grandi Attrattori Culturali del Ministero della
Cultura, su edifici del Comune di Venezia. Quelli in corso, tra
Arsenale, Giardini, Lido e terraferma, sono cantieri del valore
complessivo di 169 milioni 556 mila euro; tra le opere più attese
segnaliamo il nuovo Centro Internazionale della Ricerca sulle Arti
Contemporanee (all’Arsenale) e la riqualificazione del Padiglione
centrale, che viene annunciato come disponibile già per la 61.
Esposizione Internazionale d’Arte 2026. Ma non finisce qui, come
testimoniano anche i lavori in corso in vari padiglioni nazionali,
come quello danese e francese. Non da ultimo: ai Giardini entrate
in Community Centre, la struttura disegnata
dall’architetta pachistana Yasmeen Lari/Heritage Foundation of
Pakistan. Sorge nel sito esatto in cui il Qatar costruirà il suo
(già chiacchieratissimo) padiglione permanente, la cui
prima immagine (un render dello studio parigino Lina Ghotmeh —
Architecture) viene svelata proprio all’interno
dell’installazione.
Top – Le mostre extra Biennale
La Mostra For All That
Breathes On Earth Jung Youngsun and Collaborators, SMAC. Foto
Valentina Silvestrini
Nell’edizione 2023, caratterizzata dalla regia curatoriale di
Lesley Lokko, avevamo considerato come debole il livello delle
mostre collaterali promosse in città contestualmente alla
Biennale Architettura. Giudizio di segno opposto quest’anno, con
Venezia che accoglie nuove realtà – dalla sede in nel sestiere di
Dorsoduro della Nicoletta Fiorucci Foundation al centralissimo SMAC San Marco Art Centre, in
piazza San Marco, fra le altre – e mostre che già da sole valgono
il viaggio. Proprio SMAC debutta nel panorama culturale lagunare
con due distinti progetti, entrambi validi – Migrating Modernism.
The architecture of Harry Seidler e For All That Breathes On Earth:
Jung Youngsun and Collaborators – che dimostrano tutte le
potenzialità, anche a livello espositivo, della nuova sede. Altro
evento di strabiliante spessore che troverete a Venezia a latere
della Biennale è la mostra dedicata a diagrammi, mappe e
infografiche alla Fondazione Prada. Davvero una mostra gioiello
frutto evidentemente di una grande ricerca oltre che di una grande
visione. Da non mancare.
Top – La rinnovata piazza Santa Maria
Formosa e il nuovo corso della Fondazione Querini Stampalia
La nuova Piazza Santa Maria
Formosa rivoluzionata dalla Querini Stampalia
Il graffio del leone è arrivato non solo in Vaticano ma anche in
Campo Santa Maria Formosa. Il grande spazio pubblico veneziano si è
popolato di ben due leoni e anche di due stupende leonesse, tutti e
quattro in metallo e di dimensioni generose. Capaci, manco a dirlo,
di catturare l’attenzione di cittadini e turisti che li bersagliano
di fotografie. Un nuovo simbolo per la città che proprio un leone
ha nel suo stemma. Sono sculture di Davide Rivalta e sono il segno
dell’arrivo alla Fondazione Querini Stampalia della nuova
direttrice Cristiana Collu decisa a rivoluzionare questa
istituzione (che giustappunto su Campo Santa Maria Formosa
affaccia) sia dentro che fuori. Ma c’è di più: nell’angolo della
piazza più vicino alla fondazione è stato installato anche un
grande elemento di seduta bianco progettato da Marti Guixé,
perfetto per sedersi all’aperto prima o dopo aver visto le belle
mostre in fondazione o aver visitato il rinnovato bookshop,
particolarmente ben riuscito e curato dagli editori TLON proprio su
disegno di Marti Guixé.
Flop – Call e avvisi pubblici per
coinvolgere le masse a progettare le mostre? Bravi ma basta
Biennale Architettura 2025.
Padiglione Italia. Ph Irene Fanizza
Cosa accomuna gli iter curatoriali alla Biennale Architettura
2025 degli architetti Carlo Ratti e Guendalina Salimei? Entrambi –
va detto, disponendo di tempi d’azione diversi, ovvero più ridotti
nel caso del Padiglione Italia – hanno optato per la democratica
via della call, ribattezzandola con differenti denominazioni. Ma
anche altri padiglioni si sono mossi così, ad esempio il
Portogallo. Senza nascondere una certa fatica nell’elaborazione
delle proposte pervenute, nelle interviste che hanno rilasciato ad
Artribune entrambi hanno rivendicato l’importanza di questa scelta,
adottata per rendere possibile la presenza in Biennale di
un’intelligenza più estesa, “collettiva” per usare un vocabolo del
titolo della kermesse. In entrambi i casi, il risultato finale
finisce però per alimentare qualche perplessità circa i confini e
le responsabilità connesse con il ruolo curatoriale. Il numero
rilevante dei progetti esposti non facilita la lettura e la piena
comprensione delle due mostre. Forse si sarebbe potuto optare per
piattaforme digitali (o per il solo catalogo cartaceo), intese come
luoghi in cui segnalare progetti meritevoli, ma non al punto da
essere selezionati per l’esposizione.
Flop – L’allestimento della Mostra
Internazionale alle Corderie dell’Arsenale
Biennale Architettura 2025.
La Mostra Internazionale alle Corderie. Ph Irene
Fanizza
Abbiamo già dato conto della densità espositiva che accompagna
la Mostra Internazionale, balzata agli occhi fin dal primo giorno
di pre-apertura, ovvero a fronte di un selezionato numero di
visitatori. Impressione confermata anche nelle successive visite,
da qualcuno tuttavia interpretata come la modalità corretta per
restituire quella certa caoticità che attraversa il pensiero
contemporaneo. A perderci, in termini di visibilità, ci sembra
siano soprattutto i progetti più squisitamente architettonici
esposti nei pannelli lungo le pareti dell’Arsenale, relegati al
ruolo di “fondale” di accompagnamento per la successione di
installazioni (in alcuni casi anche meritatamente poste) al centro
della scena.
Flop – L’utilizzo dell’intelligenza
artificiale
Biennale Architettura 2025.
Le didascalie della Mostra Internazionale alle Corderie. Ph Irene
Fanizza
Vi ricordate le didascalie con i volti della Mostra
Internazionale di Leslie Lokko? Formavano una carrellata di visi da
tutto il mondo, che “dava voce” ai testi esplicativi dei singoli
progetti e rendeva manifesta la volontà della curatrice di
accogliere contribuiti spesso trascurati. Quest’anno si è ricorsi
all’intelligenza artificiale, impiegata in una forma che si sembra
riduttiva per le sue potenzialità (che sono smisurate, come del
resto anche la Mostra racconta). Fornisce, infatti, un riassunto
realizzato a partire dalle parole dei singoli partecipanti,
riportate in forma estesa sopra. Data anche la mole dei progetti,
forse sarebbe stato sufficiente chiedere direttamente a loro un
testo breve anziché ricorrere a un Bignami in AI. E comunque, anche
se ti aiuti con l’AI per fare cose, ma perché lo devi dichiarare?
Forse dichiari che hai scritto e corretto il testo con Word?
Flop – Il Padiglione Austria
biennale giardini austria ph
irene fanizza
Il Padiglione Austria non solo non dice nulla di nuovo (a Vienna
si fa housing sociale alla grande mentre a Roma è un disastro), ma
lo dice in maniera per certi versi perfino ingannevole. Sicuramente
ideologica. Il padiglione è suddiviso in due: da una parte i
virtusismi della capitale austriaca dove tutti coloro che vogliono
una casa possono accedere all’enorme patrimonio pubblico.
Dall’altra Roma, pressentata come una città di un paese in via di
sviluppo (non che in parte non lo sia, per carità) dove per avere
un alloggio bisogna conquistarselo con la forza, col sopruso,
talvolta con la violenza e occupando edifici di proprietà altrui
generando presunti vantaggi per pochissimi e danni per molti. Il
padiglione, nella parte ‘italiana’, racconta un ‘modello’ romano
altenativo a quello viennese dove le occupazioni illegali e i loro
ras vengono indicati come viruosi eroi e lodevoli robin hood. La
realtà è sotto gli occhi di tutti: una società basata
sull’illegalitàe la prepotenza dove si corre a chi occupa per primo
non ha risolto neppure un pizzico dei problemi, che sono sempre li
stessi e che anzi si sono acuiti. Anche perché, non di rado, la
retorica delle occupazioni illecite ha fornito un pretesto agli
amministratori per non fare e non risolvere. Davvero curioso che un
paese come l’Austria si sia fatto Cavallo di Troia per passare
concetti simili lasciando credere che la disuguaglianza si possa
combattere facendo ricorso alle occupazioni abusive. Valentina Silvestrini e Massimiliano Tonelli
Una scuola nel centro di Reims, in Francia, 80
anni fa, divenne segretamente il “centro del mondo”. A
narrarne le vicende è il regista pluripremiato Wim Wenders, nel corto
The Keys to Freedom.
The Keys to Freedom: il corto
di Wim Wenders dedicato alla fine della Seconda Guerra
Mondiale
Ci sono luoghi in cui è stata scritta la storia, che tuttavia
nessuno conosce: tra questi c’è una sala mappe in una scuola di
Reims, che fungeva da sala operativa per gli Alleati. Il 7
maggio 1945, la Germania nazista si arrese lì e la guerra
mondiale finì.
Quella scuola ancora esiste: si trova in Rue Franklin
Roosvelt e Wenders l’ha ripresa con la sua cinepresa,
immortalandosi egli stesso nelle sale in cui il Generale
Eisenhower, a capo degli Alleati, fece sottoscrivere la
resa ai tedeschi nazisti.
Il regista narra in prima persona gli eventi che si svolsero in
questo luogo segreto, in un gioco temporale che alterna immagini di
oggi a quelle di ieri, con fotogrammi che ricreano l’atmosfera di
quasi un secolo fa e filmati d’archivio.
Un corto per ricordare e per
investire nella libertà
Commissionato dal Ministero degli Affari Esteri
tedesco, il corto The Keys to Freedom è stato
reso disponibile alla visione sul canale YouTube del dicastero, in
più lingue (inglese, tedesco, francese, russo, giapponese, arabo,
spagnolo, portoghese).
Lanciato con l’hashtag
#WeInvestInFreedom, il film vuole essere
anche un monito per ricordare che “la libertà non può essere
data per scontata, bisogna fare qualcosa per essa”.
L’impegno di Wim Wenders per
la pace
Il film prende il titolo dalle chiavi che il Comandante in capo
degli Alleati restituì all’allora Sindaco di Reims una volta
siglati gli accordi, dicendo: “Queste sono le chiavi della
libertà del mondo!”.
Wenders ammette nel corto che è stato molto colpito dalla
visione di queste chiavi, sebbene ora siano conservate nella teca
di un piccolo museo di una scuola. Il regista aggiunge: “Dalla
mia infanzia in poi ho vissuto 80 anni in pace. (…) Oggi, per il
quarto anni, c’è di nuovo la guerra in Europa. È una guerra contro
l’Europa. 80 anni dopo la liberazione del nostro continente, noi
europei ci stiamo rendendo conto che la pace non può essere data
per scontata”. Con The Keys of Freedom, scritto e
diretto da Wenders, il regista ha voluto così dare il suo
contributo, far sentire la sua voce di artista, per la
pace.
Quanti significati si celano dietro un semplice vaso di fiori?
Questa la domanda che ha spinto Thomas Braida
(Gorizia, 1982) a focalizzare la sua attenzione, da un anno e mezzo
a questa parte, sul genere della natura morta e, in particolare sul
vaso di fiori. Una ricerca che oggi è confluita nella mostra
Tacciono i fiori con cui, dopo tre anni,
l’artista torna ad abitare gli spazi romani della Monitor
Gallery, proponendo un corpus di opere realizzato per
l’occasione dalla rinnovata forza e consapevolezza.
La natura morta nella poetica
di Thomas Braida
Dipinti su tela, su carta, installazioni e sculture, lavori
eterogenei accomunati dalla massima attenzione ai dettagli, si
alternano nello spazio della galleria esplorando il genere della
natura morta nelle sue diverse sfaccettature e
possibilità. Un soggetto che, nella visione dell’artista non è mai
mera rappresentazione della realtà ma, caricandosi di elementi
immaginari, onirici e surreali, si fa portatore di un significato
più profondo. Le composizioni distopiche di Thomas Braida, lungi
dall’avere un carattere tranquillizzante, alterando la percezione,
oltre a poter essere letti come moderni mementi mori,
invitano a riflettere sull’indifferenza, tanto
dell’uomo verso il mondo, quanto del mondo verso l’uomo. In un
climax che simbolicamente culmina in Survival Painter’s
kit, 2025, dipinto in cui il motivo floreale cede il passo a
una nuda tavola su cui coesistono una pistola e un pennello. Le
opere poi, secondo la poetica dell’artista, sono rese inquietanti
dalla sinistra presenza di elementi come: piccoli teschi, gnomi,
anomali gatti, tipici della sua grammatica
pittorica.
La pittura liquida di Thomas
Braida alla Galleria Monitor
Il percorso, nutrendosi di riferimenti letterari, traslati
implicitamente nelle opere ed evocati solo delicatamente in alcuni
titoli, mette in risalto la maturazione avvenuta
nella pratica pittorica di Braida. La pittura, rigorosamente a
olio, dell’artista ha perso la trascorsa matericità per diventare
più fluida, talvolta vaporosa. In queste opere raffinate, “in
cui l’artista procede in punta di pennello” per usare le
parole della gallerista Paola Capata, c’è una
pittura liquida, vivace, in grado di rendere al
meglio le potenzialità del medium, adoperato tanto nella sua
brillantezza, quanto in una resa più sobria e piana. Notevoli i
risultati raggiunti in tal senso, non solo sulle tele ma anche
sulle carte; opere di dimensioni contenute,
montate con piccole calamite su superfici in resina, realizzate
dall’artista, proprio come le cornici; elemento
scultoreo che sta acquistando sempre maggiore importanza nella
pratica artistica di Braida, tanto da potersi considerare come
parte integrante dei dipinti, di cui riprende sottili dettagli,
conferendo agli stessi un’impostazione quasi
tridimensionale.
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/ 7Thomas Braida, Tacciono i Fiori, 2025, installation
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/ 7Thomas Braida, Tacciono i Fiori, 2025, installation
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Monitor Rome, Lisbon, Pereto (AQ)
L’importanza della
tridimensionalità nella ricerca di Thomas Braida in mostra a
Roma
La tridimensionalità diventa protagonista nelle opere in
ceramica; vasi, disseminati nello spazio, che si celano dietro
inaspettate sembianze, rivelando il gusto dell’artista di stupire
giocando con un oggetto che si presta a essere declinato nelle
forme più diverse, purché idonee al contenimento di acqua e
fiori. A completare il percorso, infine, un altro elemento che
testimonia la fascinazione di Braida per il paese del Sol Levante:
un Noren con Camelie e Passerotto. Tipico
paravento in tessuto che, in Giappone viene usato
per separare gli ambienti domestici, realizzato dall’artista a
quattro mani con la madre che lo ha cucito. Il Noren, in
quanto separé, agisce concretamente l’indifferenza, intesa come
“separazione – cesura”. Attitudine che, per la stretta connessione
con l’ambiente domestico, evocato tanto dall’oggetto quanto dal
coinvolgimento della madre, diventa ancor più eclatante e
psicologicamente violento. Ludovica Palmieri
Non c’è spazio per la misericordia dopo la fine del mondo. E tu,
chi sceglieresti di essere se tutto andasse in pezzi?
InThe Last of Us, videogioco che ha
venduto oltre 37 milioni di copie in tutto il mondo, puoi essere
Sarah, che si sveglia nel cuore della notte senza
sapere che il suo mondo sta per essere divorato da un’infezione
fungina che trasforma i contagiati in famelici assassini. Puoi
essere Joel, uno spregiudicato contrabbandiere
svuotato dal lutto della figlia, che sceglie di salvare un affetto
al posto della specie. Puoi essere Ellie, una
persona non binaria forte, ostile, nata nel sangue e senza amore,
cresciuta tra duri addestramenti e imposizioni, ma immune al fungo
Cordyceps che ha decimato il mondo. Puoi anche essere
Abby, una superdonna che dopo aver perso tutto si
fa strumento di vendetta, più letale degli infetti.
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Non è semplice trasporre un videogame:
il successo di The Last of Us
L’omonima serie HBO co-creata da Neil
Druckmann, autore del gioco originale, e Craig
Mazin (Chernobyl) ha debuttato nel 2023 con più
di 40 milioni di spettatori solo negli Stati Uniti, attirando i
consensi sia della severa fanbase sia del nuovo pubblico.“The
Last of Us parla di quanto le persone riescano ad espandere la
propria umanità”, spiega Druckmann. Il risultato? Un manuale
di sopravvivenza e autodistruzione, un’Odissea senza Itaca, senza
eroi. Un’istantanea di chi resta, che scruta nell’abisso e rischia
di precipitare.
Nonostante il cambio di medium e l’inevitabile distaccamento del
punto di vista, da giocatore a spettatore, la storia
continua a vibrare, anche senza joystick. Le emozioni
restano interattive, non nel gesto, ma nell’intensità con cui il
pubblico le riceve e attraversa: si entra nei personaggi, uno dopo
l’altro, sentendo il peso delle loro scelte, delle colpe, delle
paure. E non sono gli infetti a far paura, ma ciò che resta di
umano: il bisogno di amare e di essere amati, di perdonare ed
essere perdonati.
The Last of Us
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I protagonisti di The Last of Us: Joel
ed Ellie, Ellie e Dina
In un mondo costantemente polarizzato, Pedro
Pascal mette d’accordo tutti. È lui Joel, il personaggio
più amato della serie: un antieroe spietato, ma che va in terapia.
Ha lo sguardo rassicurante di un padre iperprotettivo, ma in tasca
ha una pistola fumante. La sua è una mascolinità ipnotica, morbida,
goffa, inconsapevole, lontana dagli standard. Rispetto alla
controparte videoludica, Pascal aggiunge nuove sfumature di
vulnerabilità, rendendo Joel più umano e tridimensionale,
soprattutto nella dinamica con Ellie, interpretata da Bella
Ramsey. Due analfabeti emotivi che si scelgono senza
parole, che si vogliono bene per sottrazione. A tenere insieme i
loro silenzi è una chitarra, una canzone – Future Days dei
Pearl Jam – e quella frase che pesa come un presagio: “If I
were to lose you, I’d surely lose myself”. E accanto a loro,
Dina – interpretata da Isabela Merced – emerge
come una presenza altrettanto potente: compagna e ancora emotiva di
Ellie, con cui condivide una fragile intimità in un mondo che
lascia poco spazio all’amore. La loro relazione non è solo rifugio,
ma anche tensione e promessa, destinata a essere messa alla prova
dalla spirale di vendetta che incombe.
L’ambientazione della seconda stagione
di The Last of Us
John Paino (Big Little Lies, The Morning
Show), production designer della serie e candidato a tre Emmy,
ha spiegato come ogni ambiente sia stato costruito con l’intento di
evocare un realismo emotivo: ogni dettaglio è
frutto di ricerca e ricostruzione fedele del videogame. Ogni luogo
doveva apparire sia vissuto che abbandonato, con la natura che
dominava senza mai prevalere completamente: l’impronta dell’umanità
affiora in ogni rovina. L’ambiente, così, diventa un
narratore silenzioso, capace di trasmettere emozioni e
memoria, senza dialogo. La seconda stagione amplifica questa
estetica, esplorando nuove comunità e territori con lo stesso
rigore visivo, mantenendo l’equilibrio tra la fedeltà al videogioco
e le possibilità offerte dal linguaggio televisivo. Noemi Palmieri
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